Salario minimo, pro e contro: come funziona nei Paesi dove c’è e perché Meloni non lo vuole

Di Redazione FinanzaNews24 2 minuti di lettura
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(Money.it) Più volte riprese dalla stampa le dichiarazioni di estrema contrarietà della presidente del Consiglio Giorgia Meloni rispetto al salario minimo. «Peggiorerebbe la situazione» di certo è stata l’espressione più incisiva di tutte, parole giunte tra l’altro in risposta ad una provocazione rivoltole dalla segreteria Pd, Elly Schlein, intervenuta alla Camera durante il question time della premier.

Ma le cose stanno davvero così? È così netto il divario tra rischi e benefici da poterne fare un vessillo ideologico? Per dirimere davvero il contenzioso, dovremmo forse concentrarci sulle analisi dei pro e dei contro addotti dalle parti in merito all’introduzione di questa misura.

Riprendendo i dati e le considerazioni emerse dagli studi internazionali sul tema e le proiezioni che questo cambio di assetto avrebbero sul nostro sistema nazionale, passiamo in rassegna gli snodi fondamentali della questione.

Salario minimo: come funziona nei Paesi dove è stato introdotto?

Chi combatte per il salario minimo cita in giudizio varie teorie economiche e analisi empiriche condotte nei 22 Paesi europei e sui 140 Stati nel mondo in cui è stato già adottato.

Per fare un esempio la Gran Bretagna, dall’introduzione del salario minimo nel 1999, ha registrato un aumento della produttività. A dimostrarlo è stato uno studio di Rebecca Riley and Chiara Rosazza Bondibene per il National institute of economic and social research inglese.

In Francia invece è stato portato alla luce un impatto positivo sugli accordi collettivi, visto che nel Paese la disuguaglianza salariale è stata contenuta grazie all’addizionarsi della misura del salario minimo legale e dei negoziati nazionali e settoriali. Un paper del 2016 di Erwan Gautier, Denis Fougère e Sébastien Roux della Banque de France af


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