Medicina Narrativa: l’importanza dell’ascolto nelle storie di malattia

Di Antonia De La Vega 5 minuti di lettura

Rita Charon, autrice del libro “Medicina narrativa: onorare le storie di malattia”, parla della necessità di a medicina capace di “riconoscere, assorbire, interpretare e lasciarsi commuovere dalle storie”. Le storie, il carattere dell’esperienza vissuta caratterizza tutta la cultura umana, a partire dalle più antichi miti. E anche la medicina, molti decenni fa, era segnato da storie, un’abitudine persa di fronte ai grandi successi di procedure e tecnologie.

Ma la storia resta importante, da capire, condividere, identificare. Quindi è proprio una storia di malattia (e di forza) che vogliamo occorre raccontare soprattutto quando si parla di oncologia. Ecco alcuni consigli raccolti dal sito AIMAC che vogliamo condividere con voi. Per aiutare chi sta male il punto più logico da cui cominciare è quello di parlare e ascoltarlo.

1. Parlare è il miglior modo di comunicare che abbiamo
Naturalmente, oltre al linguaggio verbale, esistono molti altri modi di comunicare: baciarsi, toccarsi, ridere, disapprovare, e anche ‘non parlare’. Tuttavia parlare è di gran lunga il miglior modo per rendere chiara ed esplicita la comunicazione tra gli esseri umani. Gli altri modi di comunicare sono molto importanti, ma perché siano d’aiuto, prima dobbiamo parlare.

2. Il solo parlare della sofferenza aiuta a lenirla
Nella quotidianità abbiamo molte ragioni per parlare. Alcune sono ovvie (dire ai bambini di non toccare la stufa calda, raccontare una barzelletta, chiedere i risultati delle partite di calcio, informarsi degli ultimi acquisti, ecc.), altre, invece, lo sono molto meno, come il semplice desiderio di essere ascoltati. In molte circostanze, in particolare quando le cose vanno male, parlare aiuta a togliersi un peso dallo stomaco e serve per essere ascoltati. Non si tratta esattamente di un dialogo o di una conversazione, ma ha una sua utilità, perché allenta la pressione. Questo è molto importante perché noi siamo in grado di sopportare il carico di tensione solo fino ad un certo punto. Non oltre. Parlare può essere un sollievo.

Il solo fatto di porsi come ‘buoni ascoltatori’ aiuta di per sé. Negli Stati Uniti è stato condotto uno studio interessante su un gruppo formato da persone che avevano appreso le semplici regole del ‘saper ascoltare’ e da malati volontari invitati a parlare dei loro problemi. Gli ascoltatori potevano solo annuire con il capo e commentare con espressioni del tipo “Capisco” oppure “Vai avanti”, ma non potevano rivolgere domande ai malati né interloquire sui problemi che essi andavano esponendo. Alla fine della prima seduta quasi tutti i malati hanno ritenuto di aver fatto un’ottima terapia e alcuni di loro hanno telefonato ai loro ascoltatori per ringraziarli e per chiedere quando si sarebbero rivisti.

3. I sentimenti inespressi prima o poi fanno male
Una delle ragioni che amici e familiari avanzano per giustificare il fatto di non parlare esplicitamente al malato è che parlare della paura, dei timori, dell’incertezza potrebbe essere fonte d’ansia, soprattutto se questa non era percepita prima della conversazione. In altre parole: un amico, o un parente, potrebbe pensare: “Se gli chiedo se è preoccupato per la radioterapia e non lo è, potrei essere io a far nascere in lui la paura e a farlo preoccupare”. Non è così. Studi condotti da psicologi sui pazienti nella fase avanzata della malattia hanno dimostrato chiaramente che le conversazioni tra i malati e i familiari/amici non creano nuove paure e ansie. Anzi, è vero il contrario: non parlare di una paura la ingigantisce. Chi non può condividere con altri le proprie angosce assai spesso diventa ansioso e depresso. È stato, inoltre, dimostrato che uno dei maggiori problemi di chi è gravemente malato consiste nel senso di isolamento. In parole semplici, se un’ansia seria assorbe tutti i propri pensieri e le attenzioni, è difficile dedicarsi ad altro e provare a stare meglio.

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