Licenziamento per rappresaglia: cos’è, esempi e conseguenze

Di Redazione FinanzaNews24 2 minuti di lettura

(BorsaeFinanza.it) Come si fa a riconoscere un licenziamento per rappresaglia e qual è la differenza tra quest’ultimo e un licenziamento discriminatorio? In entrambi i casi, è prevista la reintegrazione del lavoratore o della lavoratrice, ma per il datore di lavoro le conseguenze in termini di trattamento processuale sono diverse. Un caso emblematico è quello avvenuto nel 2021 in Trentino: un operaio africano di una ditta di carni che aveva denunciato il suo superiore (e si era rivolto al sindacato) per non aver rispettato il contratto di assunzione, è stato accusato ingiustamente di minacce, salvo poi essere reintegrato grazie a una sentenza del locale Tribunale.

Licenziamento per rappresaglia: cos’è e quando avviene

Il licenziamento ritorsivo è quello che si verifica quando il datore di lavoro allontana il dipendente unicamente con un intento di rappresaglia. Queste situazioni avvengono in particolare quando lavoratori e lavoratrici chiedono il rispetto dei contratti e dei diritti e di contro le aziende, dopo aver tentato l’arma delle pressioni e delle intimidazioni, inventano accuse totalmente false, non sorrette da motivazioni di carattere oggettivo o soggettivo, sulle quali fondare la causa del licenziamento. Il licenziamento per ritorsione si basa quindi su una vera e propria vendetta del datore di lavoro in reazione ad una condotta lecita ma sgradita del lavoratore.

Il licenziamento per rappresaglia è differente dal licenziamento discriminatorio perché nel secondo caso la differenza ingiustificata di trattamento è dovuta ad un motivo di natura politica, sessuale, razziale, religiosa o linguistica. Altre fonti di discriminazione che portano al licenziamento illegittimo possono essere l’età, una disabilità oppure lo stato di gravidanza per le lavoratrici. A livello processuale, nel licenziamento discriminatorio sta al datore di lavoro dover fornire le


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