Le imprese possono dedurre le indennità versate ai dipendenti per ferie non godute in quanto voci di costo di esercizio

Di Antonia De La Vega 3 minuti di lettura
Cento studenti provenienti da diverse università degli Stati Uniti sono arrivati alla Link Campus University di Roma

La normativa vigente in materia di ferie e indennità, che dal 2009 ha registrato due svolte epocali venendo inquadrate nell’ambito delle attribuzioni risarcitorie piuttosto che retributive: risarcimento ai lavoratori in caso di ferie annuali retribuite ma perse per malattia (sentenza del 20 gennaio della Corte di Giustizia UE); deduzione per le imprese di quelle versate in quanto costi di esercizio (sentenza del 15 gennaio della Corte di Cassazione).

Nel nostro ordinamento, la svolta determinante avvenne a seguito della riforma ex DLgs. n.66/03 (entrato in vigore il 29 aprile 2003 e costato all’Italia un provvedimento sanzionatorio della Comunità Europea per non corrette modalità di recepimento), che stabilì espressamente il divieto della monetizzazione delle ferie non godute, in virtù del principio che il necessario ritempramento delle energie psico-fisiche del lavoratore risponde all’interesse generale al benessere della collettività di riferimento. La deroga di cui all’art. 2109 codice civile, che stabilisce la coincidenza del riposo settimanale con la domenica, è stata ammessa solamente per lo spostamento di esso oltre il sesto giorno lavorativo e la previsione di un giorno di riposo settimanale diverso dalla domenica purché:

  • sia mantenuto il rapporto tra ventiquattro ore di riposo e sei giorni di lavoro;
  • sia osservato il riposo giornaliero;
  • nonché sussistano apprezzabili interessi dell’attività produttiva e limiti di ragionevolezza in relazione alla particolarità del lavoro e agli interessi del lavoratore.

Qualora, tuttavia, non si riesca a recuperare il riposo settimanale entro un tempo utile per rigenerare le energie dissipate, allora si concretizzerà un fenomeno di danno da usura fisica. Questa fattispecie di stress, inquadrata nel più ampio ambito del danno biologico come species di un genus, è riconducibile alla violazione degli articoli 32 e 41 della Carta Fondamentale ed è considerata come uno dei potenziali prodotti dell’inadempimento all’obbligo di garantire la sicurezza di cui all’art. 2087 codice civile.

Cassando una precedente pronuncia della Commissione Tributaria Regionale, la Sezione Tributaria della Cassazione con la Sentenza n.871/2009, depositata il 15 gennaio 2009, ha censurato la qualificazione di detto emolumento come “accantonamento” qualificandolo come semplice costo d’esercizio da imputarsi a quello nel quale il dipendente ha maturato il diritto indipendentemente dalla materiale erogazione, caso in cui nell’esercizio successivo assurgerà a sopravvenienza attiva, imponibile ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 55 del D.P.R. n.917 del 1986. Fondando i propri convincimenti giuridici sul principio di competenza e non su quello di cassa nell’iscrizione in bilancio di costi e ricavi, la Suprema Corte ha ribadito quanto già precisato in passato dallo stesso organo con la pronuncia n°13224/07, ove si evidenziava l’ordinarietà di tale procedura nell’ambito di aziende con uffici del personale strutturati.

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