(Money.it) Tra i mille usi delle emoticon e i dibattiti generazionali sulla loro interpretazione, arriva una sentenza a dare un significato nuovo a una delle faccine più usate di sempre. Il pollice in su come firma di un contratto, principio che – per quanto sorprendente – è costato caro a un agricoltore canadese, condannato al pagamento di 61.000 dollari di risarcimento. Ma il pollice in su vale davvero come firma? Ecco cosa è successo e che cosa prevede la legge in Italia.
Il pollice in su vale come firma, la vicenda canadese
Chris Achter, agricoltore canadese, ha ricevuto su un servizio di messaggistica un’offerta di contratto da parte di un’azienda, la quale chiedeva la fornitura di 87 tonnellate di cereali. Al termine del lungo messaggio, la fatidica frase “Si prega di confermare”. Ebbene, il signor Achter, forse senza leggere il messaggio completo o peccando di noncuranza, ha risposto con uno stringato pollice in su.
Emoticon che l’azienda ha interpretato come l’accettazione dell’offerta, aspettandosi quindi di ricevere i cerali per la scadenza pattuita, prevista per il mese di novembre. Quando, poi, la consegna non è avvenuta, ha citato in giudizio l’uomo per l’indampimento. Così, il giudice T. J. Keen (della provincia canadese di Saskatchewan) ha condannato l’agricoltore al pagamento di 61.000 dollari a titolo di risarcimento, stabilendo che: “La Corte riconosce che non è un modo tradizionale di firmare, ma in queste circostanze resta valido”.
La sentenza ha sicuramente del valore storico, dato che in nessun caso pochi anni addietro si sarebbe mai pensato a questo tipo di accettazione di un contratto. Tantoché la storia, riportata dall’agenzia britannica Reuters, ha già suscitato accese controversie. Si può davvero firmare un contratto con il pollice in su? Anche l’ordinamento italiano potrebbe in effetti ammettere qu
© Money.it