Green Washing: il falso amico da tenere sotto controllo

Di Alessio Perini 4 minuti di lettura
Wall Street

Di recente, abbiamo sentito parlare sempre di più di Green Washing. Ma cosa esattamente? E perché le aziende affermano di essere “green” quando in realtà non lo sono?

Impariamo a  proteggerci da tutte quelle aziende che si dichiarano ecosostenibili, ma solo dal punto di vista del marketing.
Il greenwashing non è un fenomeno nuovo. Possiamo far risalire il termine agli anni ’90, quando le grandi compagnie petrolchimiche statunitensi come Chevron o DuPont cercarono di spacciarsi per verdi proprio per distogliere l’attenzione del pubblico dall’inquinamento che stavano causando. Da questo fatto è nato il termine Green Washing, neologismo formato dalle parole green (ambientale) e whitewash (coprire qualcosa, nascondere qualcosa). Il termine si riferisce quindi alla tendenza di molte aziende a dichiarare la propria sensibilità alle problematiche ambientali, affermando di seguire un processo di lavoro ecosostenibile, impiegando solo superficialmente pratiche green, ma cercando di distogliere l’attenzione da altre linee di business che non sono così green. Per capirlo, greenwashing significa anche attenersi a idee di marketing che cercano di nascondere nell’armadio scheletri importanti. Un esempio molto comune ora?

Creare una bottiglia come gadget aziendale per evitare gli sprechi di plastica, quando forse il processo produttivo non consente di evitare sprechi e accumulare queste risorse giorno per giorno. Il Green Washing secondo alcuni é un neologismo che si riferisce a una strategia di comunicazione di alcune aziende, organizzazioni o istituzioni politiche volta a costruire un’immagine ingannevolmente positiva di sé in termini di impatto ambientale, al fine di distogliere l’attenzione del pubblico dall’impatto negativo sull’ambiente. ambiente delle sue attività o dei suoi prodotti. Purtroppo il greenwashing è un fenomeno molto diffuso, soprattutto in un momento come questo in cui la sostenibilità ambientale è diventata più appetibile. Sono molte, infatti, le aziende che si travestono da sostenibilità ambientale e processo etico senza fare nulla di specifico per tutelare l’ambiente, utilizzando la sostenibilità come messaggio di marketing ingannevole volto a generare profitto commerciale. TerraChoice ha compilato un elenco di sette peccati commessi da aziende che affermano di essere rispettose dell’ambiente per proteggere i consumatori. Ecco l’elenco:

Il peccato del compromesso implicito: dichiarare la sostenibilità di un prodotto basandosi su poche caratteristiche e distogliendo l’attenzione da ciò che ha il maggiore impatto ambientale.

Peccato di mancanza di evidenza: un’affermazione ambientale che non è supportata da informazioni di supporto prontamente disponibili o da certificazioni affidabili di terze parti.

Peccato di vaghezza: quando le istruzioni di un prodotto sono così generali che il suo significato può essere frainteso dai consumatori.

Peccato di adorare etichette false: inserire etichette false o presentare un prodotto con parole o certificati falsi.

Peccato di irrilevanza (irrilevanza): inserire affermazioni ambientali anche vere ma non importanti o utili per i consumatori.

Peccato del minore dei due mali (il minore dei due mali): un’affermazione che può essere vera per una particolare categoria di beni, ma rischia di distrarre il consumatore dai principali impatti ambientali della categoria nel suo insieme.

Il peccato del trucco: cioè le affermazioni ambientali semplicemente false.
In Italia il Greenwashing è considerato pubblicità ingannevole ed è vigilato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Sono già state emesse diverse sentenze per alcune aziende che hanno utilizzato Green Washing, come Snam, condannata nel 1996 per il suo slogan “Methane is Nature”.

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